[Saggio introduttivo a Benedetto Di Pietro “Risoluzioni involutive”,
img_20161216_0002-copia© Copyright Prometheus Editrice 2016. Col permesso dell’Editore]

UNA CRUDELE, TRAVOLGENTE, VIOLENTA BELLEZZA
di Francesco Solitario*

Dare ad una raccolta di poesie un titolo come ‘Risoluzioni involutive’ può sembrare ardito, per non dire strano e spiazzante. Sembra in verità più un titolo di un saggio filosofico che di un libro di poesie. Ma trattandosi di un poeta siciliano, della Magna Grecia, seppure trapiantato nel Milanese, la scelta deve indurci a riflettere. Parmenide non apre forse le strade della metafisica occidentale scrivendo in versi? E così a seguire, sempre in versi, altri filosofi presocratici? E recentemente Holderlin e Nietzsche, per citare solo due fra i più noti, non hanno fatto lo stesso? E come non ricordare anche Leopardi, vedi gli studi sulla sua poesia del maggior filosofo italiano contemporaneo, Emanuele Severino, anche lui siciliano trapiantato in Lombardia? Niente paura, qui non si intende dire che ci si trova di fronte ad un trattato filosofico anziché ad un libro di poesie, si vuole solo dire che, in fondo, i confini tra letteratura e filosofia sono labili, non foss’altro perché entrambe usano lo stesso strumento: il linguaggio.

Una raccolta poetica ricca, questo sì, di un tessuto di pensiero variamente, e talora profondamente, articolato, ma che usa gli strumenti tipici della poesia, simboli, allegorie, miti, stratificazioni archetipali. E dunque Di Pietro, in questa raccolta, usa una sostanza tipicamente letteraria, il che lo pone in un ambito diverso da quello filosofico. La filosofia, infatti, è opera eminentemente aperta, discussa e discutibile, di per sé proiettata verso nuove vie, infinite come l’attività del pensiero stesso, e dunque aperta a nuove verità. La letteratura in genere, invece, e in particolare la poesia, non conosce altra verità se non la verità interna all’opera stessa! Ecco perché ogni romanzo, ogni poesia, ogni tragedia, cioè ogni opera letteraria è incastonata in se stessa, rimando a se stessa e al proprio mondo, seppure capace di parlare ai mille fruitori di quell’opera e a toccare le corde di ognuno, sebbene l’uno diverso dall’altro. Miracoli e magia dell’arte!

Il titolo ‘Risoluzioni involutive’ dà chiaramente l’idea di un pensiero che prende corpo in modo risoluto, fermo saldo, ma poi torna indietro, in una sorta di ‘involuzione’ che perde la forza della ‘risoluzione’ iniziale, senza che per questo il pensiero stesso perda di identità, ma anzi acquista, in questo andirivieni di presa di coscienza, hegelianamente, la sua stessa più profonda identità. Così come il mare sembra aver deciso (‘risoluzione’) di invadere la terra con le sue onde che sbattono contro gli scogli, salvo poi ripensarci e decidere di ritirarsi (‘involuzione’) dall’invasione. Ma in fondo è in questo andirivieni infinito che noi riconosciamo la vera identità del mare, che va e viene incessantemente.
Le poesie di Benedetto Di Pietro giocano spesso, che il lettore se ne accorga o no, su questi andirivieni di una poesia, ma potrei dire di un pensiero, che parte in un modo e torna in un altro, per non dire nel suo opposto, trovando, così, al centro di due estremi l’equilibrio di sé e, in definitiva, se stesso. Basti come esempio la poesia ‘Prigione’. Comincia con:

«Da uno squarcio
della mia prigione
godo un lembo di cielo
dove ripongo
i miei pensieri più servi».

Qui sembra che il poeta langua, e soffra prigioniero, in una prigione da cui riesce a stento, attraverso uno squarcio, a vedere, soffrendo per la sua prigionia, un lembo di cielo, dove può gettar fuori, liberandoli, i suoi pensieri servi. Ma la poesia, invece, termina così:

«La mia prigione è squarcio
che apre un lembo di cielo
e mi protegge
dai pensieri più servi».

È il ritorno, l’involuzione. Il quadro dell’azione, infatti, cambia totalmente e anzi si capovolge: la prigione non è più tale, perché anzi è diventata essa stessa uno squarcio che apre un lembo di cielo, cielo di per sé simbolo di altezza libera, di libertà, che non rende prigioniero il poeta, ma anzi lo protegge dai pensieri più servi!

Il metodo si ripresenta più volte, ricordiamo solo un altro punto (in ‘Strade di Sicilia’) ancora più significativo del precedente, perché chiaro come vedere un’onda che va e immediatamente ritorna:

«Vorrei perdermi in queste strade [‘risoluzione’]
ma un rifiuto rende vano [‘involuzione’]
ogni mio consenso».

In realtà si potrebbe affermare che “tutta” la raccolta è, appunto come dice l’Autore, una ‘risoluzione involutiva’, ovviamente con un ben preciso intento: cercare, o trovare, il giusto punto di equilibrio esistenziale.
La raccolta poetica è divisa in due parti, quasi a indicare l’andare e il venire di quelle onde del mare di cui dicevamo prima: ‘Sotto i portici del Liceo’ è la prima parte, e rimanda immediatamente ad un tempo giovanile e, perché no, filosoficamente socratico, visto che Socrate, come ricorda il ‘poeta’ Vincenzo Monti: «… passava le intere giornate sotto i portici del Liceo…»1!
‘Progressioni cogitative’ è la seconda parte dove, come si evince chiaramente, sembra che il percorso poetico, o esistenziale, debba essere intessuto di ‘progressioni di pensiero’, quasi dovessero portare ad una meta ben precisa. Non a caso il termine “ragione” compare solo in questa seconda parte e per (pitagoricamente?) tre volte.

Pure non si pensi che le due parti abbiano confini ben definiti, o siano decisamente separate, basti vedere che sia la Parte prima sia la Parte seconda si aprono con una chiara dichiarazione di poetica. Infatti la Prima parte si apre con la poesia ‘L’artista’, dove
sono evocati ed esaltati lo spirito creatore dell’artista («…l’artista crea») e l’ampiezza e profondità della cosiddetta “immaginazione creatrice” dell’artista (vedi le teorie di J. Maritain). La Seconda parte si apre con ‘Poesia perduta’, che completa il manifesto poetico della Prima parte (nell’una l’artista e il suo potere, nell’altra la poesia e il suo potere); per innescare il gioco poetico basta un niente («uno sguardo, / una foto un ricordo»), ma quel niente o poco diventano una necessità poetica tanto che «Il cuore batte forte / e la ragione vien meno». Una poesia, continua il
poeta, che «nasce dal dolore…» e scorre «come sabbia / che asciutta d’estate / scivola tra le dita».

Diverse, varie, talora contraddittorie, nel pieno spirito di ‘risoluzioni-involutive’ di cui dicevamo prima, le evocazioni e le risonanze che possono nascere dalla lettura di questa raccolta, come, ad esempio, dalle ‘riflessioni poetiche’ sul “tempo”.

Il tema del “tempo”, in Di Pietro, è tra quelli che permeano tutta la sua raccolta. La silloge stessa sembra essere stata scritta per combattere il tempo, sentito come il vero nemico («…e il peggior nemico è il tempo» perché «si ruba anche i ricordi!» ‘Un vecchio quaderno’), o fors’anche sembra essere stata scritta per vincerlo e liberarsi da esso, perché «Il tempo è tiranno» (‘Genitori del duemila’). Tempo visto anche come una macchina che tutto tracima, tutto trasporta, tutto porta a compimento, inesorabile, verso la fine, poiché «La macchina del tempo rovina» (‘Genesi catartica’), e l’uomo è costretto a subire «l’oltraggio del tempo» (‘La storia evoca’).
Pure il vero problema, per Di Pietro, sembra insito nell’equazione tempo-memoria. In ben tre sue poesie troviamo usati insieme i termini ‘tempo’ e ‘memoria’, sì da darci l’indizio di una vera equazione: nelle citate ‘Genesi catartica’ e ‘La storia evoca’ e ancora più chiaramente in Block notes, dove un diario o un block notes “regolarmente conservati” costituiscono «bacheche della memoria. / Sono carezze che ricevo / del tempo passato». Qui, come si può notare, l’antinomia: da una parte il tempo che distrugge e rovina, e dall’altro, se recuperato dalla memoria, è come una carezza!

Sembra quasi che Di Pietro ricorra paradossalmente al tempo passato per tracciare percorsi di tempo futuro, entrambi labili e fragili – perché della stessa sostanza dell’assenza (il passato non c’è più, il futuro non c’è ancora) – per vivere il presente. In questa direzione sembra procedere anche la poesia ‘I nonni’, dove la parola “tempo” si rincorre per quattro volte, e per ben tre volte in una stessa strofa, dando il ritmo di una cavalcata veloce, ma sviluppato in senso, stavolta all’incontrario, positivo, perché il tempo, in definitiva, risolve ogni cosa, scioglie ogni nodo:

«Parlano parole libere
del tempo che fu,
del tempo che viene.
Non è rimpianto,
conoscono il giro della vita
e sanno che inesorabile
il tempo risolve ogni affanno».

E con un chiaro indizio di speranza per il futuro, per il tempo che verrà:

«Il tempo ammonisce
che il mondo cambia
per rinascere diverso».

E si potrebbe continuare con tutta una serqua di evocazioni e di risonanze nascoste nei meandri di un tessuto poetico talora complesso ed equivoco per scelta, ma non se ne capirebbe il vero senso se non se ne scoprisse la vera cifra che informa, con la forza di uno ‘tsunami’, tutta la raccolta. Questa cifra, che come un fascio di luce illumina ogni verso di questa raccolta, questo carattere distintivo, questa forza talora travolgente e insieme fortemente evocativa io la vedo nella “sicilianità” di quest’uomo, prima che poeta, strappato alla sua terra d’origine. Ma si può strappare un siciliano alla sua terra senza conseguenze?

Questa raccolta, con le sue contraddizioni, con la sua passione, con la forza della sua ragione, che va dritta per poi tornare indietro e riprendersi, coi suoi sentimenti, nascosti e palesi, con le sue sofferenze e i suoi dolori, con la sua malinconia sottile per le cose lasciate e amate, e mai dimenticate, è un vero e proprio inno alla Sicilia, alla propria terra amata oltre misura, con le sue luci e i suoi colori, con le sue notti e le sue ombre, col suo vento e il suo mare2, coi suoi deserti assolati e la sua natura felice, ma sempre viva nei ricordi passati, nelle azioni presenti e nelle intenzioni future. Non si può vivere da siciliano, senza continuare ad esserlo per sempre. Solo così la propria identità esistenziale di uomo è fatta salva.

«Ogni siciliano è… una irripetibile ambiguità psicologica e morale»3. Ciò vale in genere per tutti i siciliani, a maggior ragione per un uomo proveniente da San Fratello, città con una ricchissima tradizione popolare che continua a rispettare ancora oggi, e che possiede una “lingua” particolare, quel dialetto galloitalico di cui Benedetto Di Pietro, non a caso, è studioso attento, noto e conosciuto. Una San Fratello, e una Sicilia, che così, amabilmente e malinconicamente canta (‘Il bosco’):

«Frescura che sa di resine antiche
e d’acque lustrali
è il bosco di San Fratello.
Che sa di lavoro umile e forte,
di storia diversa
di un popolo che ancora ostenta
un passato lontano.
Qui l’uomo e la natura
hanno vissuto le stesse vicende
di promesse e di abbandono».

Quando Di Pietro principia a parlare di Sicilia sembra che la mente fremi, le parole si infuocano, il cuore si riempie di gioia mista a dolore per aver lasciato quella terra, complessa e misteriosa. Così in ‘Strade di Sicilia’ disegna, come in un cammeo, una terra, appunto, complessa e ricca, dove cristiani ebrei e musulmani combattono e convivono, con sinagoghe, chiese e moschee a costituirne un paesaggio architettonico, e allo stesso tempo antropologico e morale, con strade che evocano presenze antiche:

«Le strade che sanno
di stantie presenze
risvegliano antichi passaggi
di diaspore siciliane.
Tra sinagoghe e chiese
e moschee convertite
e riconvertite
si agita un dio che cambia
tra miseria e nobiltà,
tra teste mozzate
e amorevoli carezze».

Sembra di sentire Gesualdo Bufalino quando afferma: «Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razze e costumi, mentre qui tutto è dispari, mischiato, cangiante, come nel più ibrido dei continenti»4. Ed è esattamente quello che poeticamente dice Benedetto Di Pietro in uno dei suoi più forti, sofferti e incisivi componimenti dedicati sempre e ancora alla Sicilia (‘Pianto ricorrente’):

«L’isola che tra le sponde
conosce la diversità di lingue
e di costumi,
non conosce differenze
nel dolore delle diaspore.
Piange Ibn Hamdis la cacciata
per mano di Ruggero,
piangono gli Ebrei lo sfratto
di Aragona
e i popoli che prima Trinacria
ha partorito e poi espulsi.
Son partiti tutti
con i colori profumati negli occhi,
con i canti dei carrettieri nel cuore».

Ma sembra anche l’eco della notazione, estremamente raffinata, data a suo tempo da Guy de Maupassant, che della Sicilia si innamorò: «La Sicilia è stata fortunatissima per essere stata posseduta, successivamente, da popoli fecondi… i quali hanno coperto il suo territorio di opere estremamente diverse, in cui si mescolano, in modo tanto intenso quanto affascinante, le influenze più divergenti»5.

E ancora altrove, con lo stesso spirito, si afferma:
«Una terra, la Sicilia, sulle cui mille contraddizioni non finiremo mai di dannarci la mente: funebre e carnale, misericordiosa e feroce; dove ubertà e aridezza inestricabilmente s’intrecciano… dove nel cielo più immacolato può da un istante all’altro scatenarsi il furore di un sisma, di un’eruzione»6.

Ma è pure (o è per questo?) una terra che procura lo strazio del cuore e il tormento della mente a chi l’abbandona o se ne allontana, seppure per necessità (Pianto ricorrente):

«Io piango gli anni giovani
lasciati nello Stretto
in una traversata anonima
del mare di settembre
[…]
Sicilia mia,
terra di pianto e di bellezza».

Terra di pianto e di bellezza, ma anche «Terra di dèi e terra di demoni; terra divina e terra dannata», come la definisce splendidamente Francesco Rando7. Una Sicilia e una terra, divina e dannata, così fortemente radicata nel cuore, direi quasi nel sangue e nella carne del poeta, da costituirne sempre un tutt’uno, con tutte le sue contraddizioni, le bellezze, le dolcezze, i lucori e le notti, i mesi e le stagioni, gli amori lasciati, le presenze e le assenze, e il tormento continuo e sofferto di tutto ciò che egli si è perduto con quella lontananza. È bene citare per intero questa toccante dolorosa e tenera dichiarazione d’amore per la sua terra (‘Paese d’aprile’):

«Paese mio che d’aprile
ti vesti di tutti colori.
Sei un quadro infinito
tra fiori di borragine
e asfodeli.
Chi non t’apprezza vive
di sogni estranei
per nuovi lidi.
Ignora cosa quei lidi costano
di perduto mare d’inverno,
di perdute notti d’agosto
scrutando il cielo
per trovare la propria stella.
Cosa costa un amore
lasciato e poi perduto
nel silenzio
delle parole scritte.
Ora il chiarore degli anni
illumina la mia assenza
e mi riserva un posto
per tormento e lavacro
tra le perdute facce,
tra le perdute cose».

Pure il tormento più crudo, la sofferenza più sentita, il timore più forte, per il poeta, è quello di non essere capace di raccontare tutte le bellezze che ha lasciato, tutta la bellezza sfolgorante e luminosa, quanto crudele e violenta, della sua terra (‘La storia evoca’):

«Nomade in questo mondo
per sdegno
o per paura
vivo col timore
di non essere capace
di raccontare
quanto era bella la mia terra».

Ma Benedetto Di Pietro sa raccontare, sa cantare benissimo quella terra, e alla maniera propria dei siciliani autentici, e anche quando affronta un tema delicatissimo e difficile da trattare, come la morte.
Gesualdo Bufalino afferma, a ragione, che: «Ogni siciliano è… una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola è tutta una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più fragrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può giustificarsi come l’esito naturale d’ogni processo biologico; qui appare uno scandalo, un’invidia degli dei»8. E proprio così Benedetto Di Pietro descrive la morte di sua madre (‘Una strana voglia’): mai nella poesia è citata la parola morte, mai si dice che la madre è morta, no, si è solo “addormentata” e più oltre “adagiata sul letto”:

«Eri lì, mamma,
ci hai salutati
e ti sei addormentata».

E, incredibilmente, anche in questo momento così estremamente personale, di dolore e di sofferenza, il poeta Di Pietro non rinuncia a cantare, di riflesso, la sua terra:

«Noi aspettavamo che ti svegliassi
per chiederti come stavi,
dove stavi.
Mi dicevi che avevi lasciato
i panni da stendere al paese.
Sorridevi dicendo che vedevi
colori bellissimi.
Ora sei adagiata sul letto,
col sorriso sulle labbra
e il paese dei Nebrodi nel cuore».

E così anche la madre “addormentata” è fatta tutt’uno con la Sicilia: vede i colori bellissimi della sua terra e ha il sorriso sulle labbra perché ha il paese dei Nebrodi nel cuore!

* * *

Così Tomasi di Lampedusa, che la Sicilia la conosceva bene, ebbe a notare: «[…] La Sicilia, l’ambiente, il paesaggio… questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuori misura, quindi pericolosi… Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto […]»9.
Sì, questa violenza, questa crudeltà, questa bellezza sfolgorante, questa tensione continua sono lo sfondo indispensabile e necessario per vivere dal di dentro questa intensa raccolta di Benedetto Di Pietro.

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*Prof. Francesco Solitario, Università di Siena
1 V. Monti, ‘Opere inedite e rare’, vol. III, Società degli Editori, Milano 1732, p. 164, nella “Lezione quinta” dedicata, appunto, a Socrate!
2 Devo la percezione “vivente” delle luci, dei colori, del mare e del cielo della Sicilia anche alla pittura del mio carissimo amico ragusano Franco Cilia, artista geniale, interprete sensibile e passionale di quei luoghi spettacolari, resi magici dalla sua pittura.
3 Gesualdo Bufalino-Nunzio Zago, ‘Cento Sicilie: testimonianze per un ritratto’, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 6.
4 G. Bufalino-N. Zago, ibidem, p. 5.
5 Guy de Maupassant, ‘Viaggio in Sicilia’, Promopress, Palermo 1991, p. 21.
6 Sebastiano Gesù (a cura di), ‘La Sicilia e il cinema’, Maimone, Catania 1993, p. 11.
7 F. Rando, “Platone e Carmelo Ottaviano”, in ‘Carmelo Ottaviano nella filosofia del Novecento’, Prometheus, Milano 2008, p. 45. Devo a Franco Rando, modicano che mi onora della sua amicizia fraterna, ai suoi racconti calorosi e appassionati della terra, della gente e della storia siciliana, nonché alla lettura del suo entusiasta e coinvolgente saggio sopra citato, avermi aiutato, negli anni, ad avvicinarmi a comprendere e a sentire lo speciale e unico carattere dei siciliani, di cui lui stesso è esempio emblematico.
8 G. Bufalino-N. Zago, cit., p. 6.
9 G. Tomasi di Lampedusa, ‘Il Gattopardo’, Feltrinelli, Milano 1958, pp. 211-212.